Il fallimento di Copenaghen


Si è concluso l'incontro di Copenaghen ed ancora una volta si è persa l'occasione di stringere accordi decisivi e vincolanti per salvaguardare il pianeta. Il tempo oramai è sempre meno, ogni stato deve assumersi le sue responsabilità e ridurre l'inquinamento in modo drastico.
Nurisso

_ COPENAGHEN _
E ora si raccolgono i cocci e si avvolgono in carta regalo. Si è chiuso ieri il vertice climatico di Copenaghen, e il bilancio è quaresimale. Non c’è un accordo politicamente né legalmente vincolante, e non c’è l’impegno a raggiungerlo entro il 2010. Non c’è un obiettivo di riduzione _ se non volontario _ al 2020. Non c’è neppure un impegno di riduzione al 2050 neppure per i soli paesi sviluppati (si è opposta la Cina). E’ saltata la possibilità di raggiungere l’accordo sulle foreste (il cosiddetto Redd), non c’è il controllo degli impegni di riduzione nazionali dei paesi in via di sviluppo (c’è invece per quelli realizzati con l’assistenza internazionale, imposto dagli Usa).

E se è vero che esiste l’impegno di rimanere al di sotto dei due gradi di riscaldamento (ed è stato inserita all’ultimo momento la promessa che nel 2016, quando si farà la revisione degli impegni, “si valuterà” se alzare l’obiettivo a 1,5°) questi resta un pura enunciazione senza strumenti per concretizzarla. Quanto agli impegni di riduzione dei paesi in via di sviluppo _ che pure sono una novità _ saranno assolutamente volontari. Di rilevante resta solo l’impegno finanziario (vero) di 30 miliardi di dollari all’anno per il triennio 2010-2012 e, teoricamente, “l’obiettivo di mobilitare” (formulazione pericolosamente generica) 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020 per far fronte ai bisogni dei paesi in via di sviluppo piu volneravbili al cambiamento climatico ed è positivo anche il nuovo meccanismo per il trasferimento di tecnologia.

Ma solo degli inguaribili ottimisti (o dei politici in cerca di voti) non parlerebbero di fallimento, ennesimo rinvio delle scelte vere e di accordo marginale nella lotta ai cambiamenti climatici.Accusare chi parla di fallimento di fare il gioco dei negazionisti è una accusa troppo facile e per nulla fondata. Di contro, definire un mezzo successo Copenaghen è una operazione cinica e mezognera che nasconde la verita: che stiamo perdendo altro tempo a causa di chi non vuole politiche realmente incisive. La curva delle emissioni, dice l’Ipcc, deve raggiungere un picco attorno al 2017, massimo 2020, se si vul cercare di mantenere il riscaldamento entro i due gradi. Con le politiche attuali questo non avverrà. E come ammette lo stesso segretariano nel documento riservato scovato dal Guardian nei giorni scorsi, il riscaldamento sarà di tre gradi. Su tutti la colpa di questa incresciosa situazione dove si dice una cosa e se ne fa un’altra è del “G2″, cioè della Cina (che si nasconde dietro il “diritto allo sviluppo”) e degli Stati Uniti (che magari vorrebbero fare di più ma non possono a causa delle resistenze di un Senato e di un Congresso ostaggio le lobby del carbone e degli idrocarburi). Ma forti sono le responsabilità di India, Russia, Canada. Di una parte del mondo industriale. Di una parte dell’ambientalismo che si illude che parlando di bicchiere sistematicamente mezzo pieno si incoraggi un processo che invece ha bisogno dell’elettroshock e non di carezzevoli autoconsolazioni.

E fosse solo questo: è da vedere l’accordo di Copenaghen (modesto di per sè) se sarà poi applicabile. In una lunga battaglia negoziale che si è dispiegata da mezzanotte alle 10.30 di mattina un gruppo di battaglieri paesi in via di sviluppo ha fatto il diavolo a quattro per impedire che l’”accordo di Copenaghen” _ osteggiato perché troppo blando e perché calato dall’alto _ fosse adottato dalla Convenzione sul Clima. Il fuoco alle polveri l’ha dato Jan Fry il battagliero capodelegazione dell’arcipelago delle Tuvalu, nel Pacifico, che rischiano di essere sommerse (ma lui, previdente, vive in Australia, a 144 km dal mare). “I soldi sul tavolo per questo accordo _ ha attaccato usando una metafora biblica _ sono come 30 denari d’argento per tradire il nostro popolo. Signor presidente, il nostro futuro non è in vendita, noi votiamo contro”. Erano da poco passate le tre del mattino ed è calata una pietra tombale sull’“accordo di Copenaghen”, perché dopo di lui sono intervenuti il Venezuela, la Bolivia, Cuba, il Costarica e il Nicaragua. Tutti contrarissimi. E il Sudan ci ha messo la ciliegina avvelenata dicendo che l’accordo “è come l’Olocausto”. Dato che in sede Onu vale la regola del consenso e basta un solo paese per bloccarlo, con sette nazioni contrarie l’intesa era segnata. I paesi poveri hanno impedito che l’accordo fosse adottato. Solo dopo un’ora e mezza di consulto con i legali dell’Onu, si è trovata la quadra. Al posto di Rasmussen è stato messo il deciso Philip Weech delle Bahamas che ha fatto approvare per consenso la decisione di “prendere nota” dell’accordo di Copenaghen. Ai sensi della decisione 55/488 dell’assemblea generale la formulazione “prendere nota” non costituisce approvazione ma solo “presa d’atto”. Gli impegni dell’accordo sono quindi fuori dalla Convenzione e saranno validi solo per chi sceglie di aderirvi. Il che apre vasti problemi procedurali. Oltre che debole, l’”Accordo di Copenaghen” è quindi anche giuridicamente incerto. “Sono cosciente _ ha ammesso il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon _ che non è quel che tutti speravamo. Ma è un inizio, ora lavoreremo per renderlo legalmente vincolante nel 2010>.

Lo avevano detto anche alla conferenza di Bali, due anni fa: a Copenaghen avremo un accordo vincolante. E si è visto come è andata a finire.

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