Articolo tratto da Piovono rane
Non si trattava solo di un incubo notturno. Le fotografie c’erano davvero: quelle del corpo di Stefano Cucchi, di pochi giorni fa, e quelle dell’Espresso di 34 anni fa, con il corpo di Pier Paolo Pasolini, abbandonato all’Idroscalo di Ostia e che era sembrato un mucchietto di spazzatura alla donna che l’aveva trovato.
Pasolini ucciso non si sa da chi ma si sa perché, Stefano Cucchi ucciso si sa da chi (più o meno) ma non perché.
Ma proprio la terribile somiglianza delle immagini risponde in realtà a entrambe le domande: chi? perché?
Perché c’è un punto in cui l’odio la rabbia la paura, una paura che diventa ferocia e che va oltre la ferocia, non si accontentano non possono accontentarsi di togliere violentemente la vita a qualcuno. Vanno oltre. Devono andare oltre. Oltre l’assassinio. Hanno bisogno di infierire (fiere, ferocia) deturpare sfigurare scassare il corpo anche dopo l’ultimo fiato (non sappiamo ancora se sia stato esattamente così per Stefano, ma non mi stupirebbe e comunque importa poco).
È quando una persona in-carna – volontariamente o no, “testimonia” – qualcosa di cui l’altro non riesce a sopportare nemmeno l’idea: frocio drogato comunista, siamo sempre lì, siamo ancora lì.
“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte / mi cercarono l’anima a forza di botte”. De Andrè. Cercare l’anima. Sinonimo di rubare, rubare l’anima. Perché la violenza di cui sto parlando solo a questo mira: cancellare l’anima (un’idea, un’identità, un valore, una diversità, un sogno…).
Un paradosso che dovrebbe piacere ai cattolici, ma che piace sicuramente molto anche a me: che si possa cancellare un’anima solo cancellando un corpo, un corpo inerme e inerte che con furia cieca si pesta calcia frusta bastona. Sfregiandolo fino alla soglia dell’irriconoscibilità.
Piergiorgio Paterlini